Nadia è una artista brillante dalle mille risorse: scrive libri, poesie, canzoni, racconti, canta, suona la chitarra, dipinge, disegna. La sua arte viene guidata da una fortissima sensibilità, che le ha permesso di esplorare le tante forme del suo “io”. Ora ha trovato lo spazio migliore dove esprimersi da quando si è trasferita a Barcellona dal suo paese di provincia in Italia, luogo in cui il contesto sociale non era favorevole nei confronti di una ragazza bipolare. “Da quando sono a Barcellona ho più stimoli e le depressioni sono più dolci, le persone sono più aperte mentalmente e gli spazi in cui passeggiare più ampi. La mia produzione artistica è aumentata, migliorata, qui le persone sono abituate alla stravaganza.”. In questa intervista ci parla di come è riuscita a non farsi abbattere dalla malattia e come è stata capace di continuare a produrre arte per conoscersi meglio, prima attraverso la scrittura e poi con la fotografia.

Stai per pubblicare un libro autobiografico dove parli del tuo disturbo bipolare. Cosa ti ha spinto a raccontarti attraverso la scrittura?
L’autobiografia non è altro che la descrizione di un contesto sociale sfavorevole che ha agevolato la proliferazione del disturbo che era ignoto persino a me, finché latente. Il fatto che ho ripreso le attività artistiche, significa che la società circostante non ha compromesso un granché, pubblico solo anni più tardi, scrivo per passione ed esisto ugualmente, grazie alla mia personale forza di volontà, all’amore dei miei genitori, ma anche alle terapie. Tutto ciò che riporto, mi è successo davvero. I dialoghi sono veritieri come i fatti. Le persone diventano personaggi e sono immortalate in quell’attimo in cui hanno influito. La mia vita passata è un libro, non mi influenza nel presente proprio per questo. Scriverlo mi ha permesso di vedermi al di fuori e di uscire da quella condizione che mi bloccava, ma allo stesso tempo il messaggio non è quello di colpevolizzare pubblicamente nessuno (infatti ci sono i nomi solo di chi merita per influenza positiva) ma di colpire e far pensare chi mi ha schernito per poca empatia e ha contribuito a compromettere la mia salute mentale, favorendo il mio isolamento dalla società. Io anche li ringrazio nel profondo e dedico un libro a queste persone: grazie al loro rifiuto stando a casa ho letto tantissimi libri, mi sono fatta una cultura.

Il titolo del libro è “Esisto e Divago”, ce lo puoi illustrare?
Il titolo può avere diverse interpretazioni. Il contenuto del libro e lo stile di scrittura stesso sono motivo del titolo: ho riassunto in due parole quello che per me è il senso stesso della mia personale esistenza. Ho iniziato a scrivere per gioco da bambina, ora continuo a farlo perché mi fa stare bene. Il libro in sé è abbastanza ambiguo e lascia spazio a più interpretazioni.

Il percorso dell’autobiografia come si è snodato?
“Esisto e Divago” non è un racconto di fantasia, non è un racconto cronologico, è un percorso reale senza finzione. Il suo gemello si chiamerà “Divago ed Esisto”, un libro totalmente diverso. Sono stata molto indecisa su questi titoli, io chiamo i gemelli col nome:”Scusami se Esisto”. Non so se il secondo lo pubblicherò mai, resterà lì, già pronto in attesa, vorrei dare precedenza ai non autobiografici.

Ci sono state delle parti del tuo libro difficili da scrivere?
Si. L’unica fase in cui scrivo bene e ho un senso critico obiettivo è la fase eutimica, ossia quando l’umore sta in asse e sono Me. Però scrivendo ho superato tutte le mie fasi. Riconosco che ci sono stati periodi in cui ho dovuto smettere proprio perché per me scrivere è mania: mi piace talmente tanto che se non mi do un limite non mangio, non dormo, non mi lavo. Ho quindi capito che la mia stessa passione è causa di psicosi.

Che cosa rappresenta per te la scrittura?
La scrittura è la passione che mi tiene in vita. Ma devo stare attenta a non abusarne, infatti adesso smetterò. Mi permette di conoscermi meglio, ma se mi conosco troppo mi manda fuori. Con il tempo mi sono resa conto che scrivo più per disturbo sociale che bipolare. Scrivere per me è dare uno specchio dove un lettore si può guardare e riconoscere, ma non ho intenzione di pubblicare tutta la mia produzione autobiografica per questo, finché sono in vita. Anche se mi è stata riconosciuta una forma piuttosto grave di bipolarismo non demordo, vorrei passasse la forza di non arrendersi.

Hai affiancato al tuo libro un archivio fotografico fatto di autoritratti. Quali sono le motivazioni che stanno dietro a questo progetto?
La conoscenza di quella che non riconoscevo più guardandomi allo specchio. Il gonfiore del mio viso mi ha fatto sentire un’estranea allo specchio. Fare le foto mi ha abituata alla mia nuova immagine. Condividerla con chi mi conosceva ha abituato gli altri a un viso più rotondo. La collaborazione più incisiva è stata quella con Sabrina, fotografa amatoriale incontrata a Barcelona. Le ho parlato del mio problema, mi ha scattato le foto e ha contribuito a rompere la maledizione del mio specchio distorto, e tra una chiacchierata e l’altra è nata un’amicizia di cui vado fiera. Ci facciamo forza a vicenda, ogni giorno ci diamo da fare per vedere realizzati i sogni di cui parliamo.

Tu dici che il volto cambia con la malattia. Che emozioni provi a riguardare le foto del passato confrontandole con quelle di oggi?
Ormai indifferenza. Sono serena. Sarò diversa ma sono sempre io. Il volto cambia per la cura, conseguenza della malattia. Non ho problemi nel far vedere che mi sto curando, proprio perchè consapevole di avere una patologia. Se ieri la spensieratezza mi rendeva bella, oggi neanche mi importa di esserlo. Questi anni sono passati molto lentamente per me. La mia immagine diversa era solo una scusa per non uscire di casa. Ciò che c’è di positivo e che a colpo d’occhio so dire esattamente quanti anni ho nella foto per la dimensione della faccia. Si stava meglio prima con quella faccia? No. Sorridevo ma ero depressa, ignara del mio problema. Ora che so come si chiama lo conosco e lo affronto.

Come cambia il tuo volto tra mania e depressione?
Quando sono in mania, un commento che mi ha molto ferita è stato “sembra che ti sei sniffata Cocaina”. Quando ero in depressione, “La sfinge”. Quando sono in asse con l’umore e sono “Normale”, sono espressiva. Ma gli scatti sono ingannevoli.

Riesci a scorgere la vera Nadia, al di là della malattia, nelle tue fotografie?
Sì, io nelle foto sono sempre me, anche quando mi faccio comandare dal disturbo e pure nella sua assenza. Sono una persona, mica tre. Alla fine il mio problema è riconoscere le mie foto da neonata, più che altro. Vedermi nei video mi fa strano, per il mio atteggiamento, mi rendo conto che non sono cambiata per niente.

Cosa senti il bisogno di comunicare, afferrare con il tuo percorso?
Niente di particolare, oltre la forza e la testardaggine per migliorare la propria vita. Ripeto: il mio percorso raccontato non è un buon esempio da seguire. Però un “Ajò” a tutti i bipolari lo vorrei trasmettere, quelli che in questo momento stanno facendo il fosso o hanno intenzione di farla finita. “Ajò” detto in quella frase è come dire: muoviti, fai qualcosa, alzati. Queste sono cose che rileggerò nella fase depressiva che credo arriverà puntualmente tra una settimana. Me le dimentico sempre quando il disturbo ricompare, è incredibile.

In che modo il disturbo bipolare ha influenzato la tua arte?
Nel modo in cui gliel’ho permesso.
