Traduzione di Cecilia Bonazza
Con gli amici
Subito dopo essersi trasferita a Charlotte, nel Nord Carolina, Keira incontrò una ragazza che aveva un figlio dell’età di sua figlia. Diventarono molto amiche e Keira finì per confessarle che era bipolare di tipo II.
Poco dopo, quando una crisi le rese estremamente faticoso prendersi cura di sua figlia, chiese aiuto alla sua nuova amica. L’amica accantonò la richiesta, dando la colpa della sua crisi alle sfide che comporta essere un genitore alle prime armi. “Quindi glielo chiesi di nuovo un paio di giorni dopo,” dice Keira. “Lei alzò gli occhi al cielo. “Similmente, questo era già successo con altre persone. “Ho provato a confidarmi un po’ con tutti, ma non è qualcosa con cui le persone si relazionano facilmente,” continua. “Quando dici: ‘Mia suocera mi sta facendo diventare matta’, loro rispondono: ‘Oh si, come ti capisco’. Ma quando dico che ho problemi con la mia salute mentale loro dicono ‘Lo so. Anche io sto così quando sono stanco.’ Io credo che cerchino di venirmi incontro, ma quando gli spiego che è più che sentirsi stanchi allora si discute a vanvera finché non mi arrendo. Sembra che pensino che sono molto egocentrica o che cerchi di suscitare compassione.
Keira non è la sola. Uno studio del 2001 a cura della Mental Health Foundation rivela che il 34% dei partecipanti ritiene di non poter dire a nessuno, o a davvero pochi dei loro amici della propria malattia mentale perché non capirebbero o reagirebbero male. Il 39% è preoccupato che questo accada e solo il 28% ha risposto di poterlo dire alla maggior parte dei propri amici.
Nonostante sia ancora un po’ frenata, Keira sta cercando di essere più aperta quando instaura nuove amicizie. “Sono sempre preoccupata e non so se faccio bene, se sto dicendo troppo o se sono troppo chiusa.” racconta. “Non sono stata brava a tenermi gli amici in passato ma sono determinata a farlo ora.”
In famiglia
Seppur involontariamente, i membri della famiglia possono subito incolpare il disturbo quando non gradiscono un particolare comportamento o una decisione presa invece di accettare che questa era stata fatta di proposito, secondo lo psicologo Terry Dornak di Chicago.
“E’ una cosa che succede spesso ai miei pazienti,” dice. “Gli viene detto: ‘L’hai fatto solo perché sei sempre impulsivo’ oppure ‘Ti comporti così perché devi essere in fase maniacale.’ Ma incolpare il disturbo fa sentire le persone come se fossero solamente dei malati.”
Se questa è la situazione, Dornak consiglia di parlarne in modo aperto con un psicoterapeuta regolarmente, di essere puntuali con l’assunzione delle terapie e usare strategie di coping in modo da essere stabili e in grado di fare scelte ponderate se necessario.
Alcune reazioni possono nascere per dei pregiudizi impliciti basati sulla storia personale, dato che il disturbo ha una forte componente genetica, un membro della famiglia può avere avuto un rapporto negativo con un altro membro bipolare.
“Forse si portano dietro ferite ancora non risolte,” dice Heather Z. Lyons, psicologa di Baltimora. “Vedono qualcuno che si comporta in un modo simile al quale loro ancora non sono riusciti ad abituarsi.”
Educare potrebbe essere d’aiuto. L’interazione negativa potrebbe essere avvenuta anni addietro quando c’erano meno informazioni ed erano disponibili meno trattamenti. Bisogna essere consapevoli delle tempistiche. “Il farro va battuto quando è freddo,” dice Lyons,”in modo da non avere conversazioni pesanti quando qualcuno è su di giri. E’ invece meglio scegliere un momento di calma per affrontare certi argomenti.”
Occorre anche provare ad essere pazienti. Riflettere su quanto ci sia voluto, o ci stia volendo, per comprendere realmente la diagnosi e realizzare che gli altri hanno minor cognizione di quello contro cui combatti.
“Bisogna che vadano oltre il loro processo di apprendimento,” continua Lyons. “Li si può aiutare dando informazioni, concedendogli del tempo, essendo disponibili a rispondere quando hanno domande e accettare che non li si può forzare a cambiare idea.”
Van Eaton sa per esperienza personale che seppur l’educazione sia la più grande arma disponibile contro lo stigma, essa ha i suoi limiti. “Sono cresciuto con amici e familiari che erano bipolari, quindi ci ho convissuto per tutta la mia vita ma io non riesco a comprenderlo del tutto perché io non lo sono,” spiega. “Se il vostro scopo è far comprendere completamente agli altri quello che state passando purtroppo state perdendo il vostro tempo. E’ già un grande traguardo accettare la cosa.”
Nei primi studi di questo genere riguardo a come la malattia mentale crei conflitti a livello familiare, dei ricercatori spagnoli hanno scoperto che i membri delle famiglie sono portati a provare meno empatia e piuttosto vergogna o imbarazzo quando un parente è affetto da malattia mentale rispetto ad altri problemi di salute generici. La ricerca, svolta dalla World Health Organization nel 2013, ha riscontrato questo comportamento in più di 16 paesi. Questo potrebbe essere attribuito in parte al cosiddetto courtesy stigma, ovvero quello che il sociologo Erving Goffman, già nel 1963, definì come un tipo di stigma per associazione, ovvero quando si è concepiti negativamente in quanto collegati ad una persona che subisce lo stigma.
Per Jess, della California, che convive con un disturbo bipolare di tipo I, il tentativo di supporto che le offre il padre manca l’obiettivo. Lui è perennemente ottimista e crede che un giorno lei potrà smettere di prendere la sua terapia nonostante lei gli dica ripetutamente che non sarà così. “Io lo amo da morire ma è come se lui cercasse di essere forte per me invece di essere semplicemente sincero. Io sento il bisogno della sincerità a volte”
Articolo di riferimento in inglese
Traduzione di Cecilia Bonazza